Critica

Francesca Magro, "Incarnazione del segno", 2011, particolare.

Francesca Magro: Incarnazione del segno

di Silvia Rossi

Questa mostra vanta una storia “illustre”, non solo perché ospitata in due prestigiose sedi storiche (Palazzo Bonaventura Odasi, il “Museo della Città” di Urbino, marzo-maggio 2013 e Scuola Superiore d'Arte Applicata del Castello Sforzesco di Milano, giugno 2013), ma soprattutto – e questa è la ragione per cui si è pensato di proporla alla Costa del Rile, in stretta coerenza con la sua vocazione - perché si pone come momento culminante, come Spannung narratologico, del percorso creativo di un'artista che interroga profondamente i nostri animi con la pregnanza di un prodotto estetico in grado di squadernare un mestiere saldamente consolidato coniugandolo con un'inesausta riflessione – intellettuale ed emotivo-esistenziale - sull'uomo tout court.
Non è un caso che questo ciclo di quaranta incisioni sia stato accompagnato dall'edizione di un testo complesso, che ha ospitato contributi poliedrici di specialisti di vari settori (storici dell'arte, docenti di filosofia, pedagogia, psicanalisi, artisti di differenti discipline, dalla danza alla fotografia alla regia…), con lo scopo di sviscerarne tutte le implicazioni semantico-simboliche e formali sulle quali, quindi, non si ha la pretesa in questa sede, di aggiungere nulla di originale.
Solo qualche suggestione di lettura…

Fin dal primo impatto queste calcografie mi hanno impressionato per l'equilibrio raggiunto in una sorta di miracolosa euritmia finale, che scaturisce paradossalmente da una primitiva deflagrazione dei corpi - in tutti i contributi cui si accennava sapientemente indagata nelle sue molteplici valenze - ma che, a mio avviso, affonda le sue radici anche e soprattutto, in un' incredibile stratificazione di elementi contenutistici e stilistici, che non può essere rivelata solo da un'analisi delle singole parti dell'opera, perché veicola costantemente tutto il notevole spessore umano ed artistico dell'autrice.
In buona sostanza si registra una sorta di epifany, in senso montaliano, non dell'oggetto “uomo”, ma dell'humanitas che, apparentemente straziata e annichilita in queste opere, come accade ricorsivamente nella cultura dominante del “secolo breve”, in realtà riesce poi timidamente a risorgere dalle sue stesse ceneri, sicut nuova fenice, pur nelle torsioni di improbabili anatomie radiografate e in qualche modo ricomposte in una sorta di robotini ermafroditi o comunque sessualmente non ben definiti, nonostante ricorra la citazione, di boccioniana ascendenza, del tema della mater (maternità/matrice), che, in realtà, nella Weltanschauung dell'autrice si pone fondamentalmente in dialettica con l'umile osservazione della perfezione di “Madre Natura”.
Come è dunque possibile questo processo di ricostruzione? Attraverso l'ottica straniante con cui l'artista propone, in modo ora ludico ora grottesco, il drammatico tema novecentesco della dissoluzione dell'umano, della “perdita del centro”, della conseguente incomunicabilità fra gli esseri, sempre da un punto di vista “altro”, appunto “estraneo” all'oggetto indagato, ma in modo che si avverta costantemente la presenza vigile e consistente del soggetto indagatore che, razionalmente e non solo, guida e sorveglia la scena in cui il “nuovo uomo” fluttua sul “nuovo” paesaggio-proscenio.
Ma non basta. Francesca Magro, in un universo di urlanti nichilismi, pone un punto fermo: una silente classicità ricostituita attraverso l'equilibrio perfetto dell'insieme in cui si presentisce la via di un possibile ritrovamento dell'“Io”, in un percorso che ancora non si dà compiutamente, ma di cui si intravvede la traccia.
Per questo “incarnazione del segno”: un segno istintivo, ma maturo, deciso, su cui non si può e non si vuole tornare, che non necessita di disegni preparatori, ma incide con sicurezza la lastra e traccia un solco definitivo che non ammette repliche: non è solo il frutto di sapiente techne, ma l'alveo di un sentiero che l'artista marca con sicurezza perché è la stessa sede di una personale instancabile ricerca esistenziale, condotta con rigore assoluto. Allora non esiste più distinzione gerarchica tra micro e macro-cosmo, tra primo piano e sfondo, fra luce e ombra, fra colore e non colore (bianco e nero): tutto viene ri-significato (signum facere), con un'operazione di pascoliana memoria che, però, non si arresta all'intento evocativo, ma ha il coraggio di proporre una pars construens in un panorama culturale in cui, da decenni, ciò non sembrava più pensabile. Così tutta la storia passata dell'artista si fa presente nella singola acquaforte e i titoli prescelti con cura ne definitivo che non ammette repliche: non è solo il frutto di sapiente techne, ma l'alveo di un sentiero che documentano la consapevolezza: dalle ricerche sull'”ovoide”, comparse nelle tele degli anni Novanta e alimentate anche da suggestioni letterarie – il tema è ovviamente connesso agli interrogativi ultimi sull'origine primordiale della Vita – che riemergono nelle incisioni “Artificio” e “Condizione” del 2011, alle riflessioni sul mito e in particolare sul tema della metamorfosis, che rimanda alla trasformazione di Aracne in “Manipolazione” dello stesso anno fino a giungere al moto ascensionale di Icaro in “Volo”, calcografia sempre del 2011.

Oltre all'interesse per le fonti letterario-mitologiche, altra costante nello sviluppo della personalità artistica della Magro risulta la consuetudine con la riflessione filosofica, non solo testimoniata da titoli come “Memoria”, “Tempo immutato”, “Paradigma”, “Relazione”, “Interazione”, “Oltre il principio”, ma prepotentemente emergente sulla carta proprio nella natura ontologica dell'oggetto indagato e nella qualità dell'esito finale raggiunto.
La dialettica fra la sobria “scultura” del segno e l'impattante fluorescenza dei fondini genera in modo inatteso un equilibrio “architettonico” d'insieme che provoca nel fruitore una sorta di catarsi finale: chi guarda è empaticamente catturato dal colore, volutamente emozionale, e nel contempo respinto dal tratto che, pur in apparenza distaccato e comunque lontano dal compiacimento macabro di tavoli da dissezione di scapigliata memoria, genera inevitabilmente un moto di inquietudine il quale, però, si ricompone all'istante, nella visione d'insieme del testo iconico, che suggerisce una sensazione di inatteso ma riuscito controllo dell'atmosfera dominante nelle singole opere.
E' come se l'artista fosse in grado di ricomporre con regia perfetta nelle sue creazioni quell'armonia apparentemente annientata nella realtà: lo scopo non è un'ariostesca evasione in funzione consolatoria, ma la “messa in scena” della provocazione di chi ha ritrovato in sé un equilibrio, in un'inesausta ricerca di ri-composizione fra pieni e vuoti esistenziali e sceglie coraggiosamente di indicare un possibile percorso verso il ritrovamento del “sè”, pur nella martellante presenza di minacce esterne, senza però alcuna pretesa di ricette risolutorie.
Così, la continua meditazione personale sul senso dell'“Io” in rapporto col “Tutto”, nelle opere delle Magro, permette di nuovo al “sacro” di “farsi carne” e l'Uomo, da decenni diseroico e addirittura ridotto a parti meccaniche intercambiabili, prive ormai di ogni velleità di potenza di ascendenza nietzschiano-futurista, ricomincia a “danzare” in un inedito e sorprendentemente ritrovato kalòs kai agathòs.

Retorbido, 2015