Critica

Francesca Magro, "Amanti", 1994, particolare.

“L'enigma, la metamorfosi, il mito”

di Gìanni Pre

Bisogna avere in sé molto caos per partorire una stella che danza
(Nietzsche)

II fascino e l'influenza che ha esercitato nella pittura del novecento Giorgio De Chirico sono stati consistenti e persistenti.
Il fondatore della Metafisica che, in un fervido ed acuto saggio del 1967, Patrick Walberg ha definito il “maestro degli enigmi”, oltre ad essere stato, quantomeno agli inizi, uno degli ispiratori della poetica surrealista rimane, forse, insieme a Rene Magritte, il pittore più emblematico e spiazzante del nostro secolo. Nei suoi quadri sembra di entrare in una scenografia onirica; la sua, come la definì Ardengo Soffici è proprio una “scrittura di sogni”, in cui regna un orrore sacro sotto i portici dell'enigma.
E come nella meccanica subconscia, il tempo resta congelato, abolito, anzi viene compresso-dilatato in una gittata parabolica che può persino rendere presenti un busto, una colonna, un dio dell'antica Grecia al cospetto di luoghi, oggetti, personaggi dell'immanenza: la locomotiva, il guanto, il carciofo, la ciminiera la piazza, il manichino. Ma ogni reperto antico o recente messo in scena, perde la propria intrinseca valenza per dissociarsi, tramite un iperbolico scatto d'ambiguità, nel regno ineffabile del polisenso.
Certo giocano nella fantasia di De Chirico archetipi del proprio vissuto, ma fusi e/o contrapposti ad altri dell'inconscio collettivo.
Per cui il senso di precarietà e di straniamento risultano estremi: gli elementi in campo vengono tramutati in attori di una muta ed immota recita, e promanano una prolungata eco d'angoscia, resa conturbante dal lameggiare lungo gli scenari di sottili e taglienti ombre.
È un universo di crittogrammi e di rebus quello di De Chirico, che cela nei suoi labirintici specchi: mistero e fatalità, dolcezza e strazio, spleen ed horror vacui. Ed i significati che dapprima sembrerebbero farsi afferrare, ecco che invece rimbalzano via: in una ridda di riecheggianti propagazioni, dolorose e beffarde. In una cerebralità divorante.
Se ci accostiamo ai dipinti di Francesca Magro, avvertiamo un analogo moto di angosciante straniamento, di “cerebralità divorante”.
Anche nella sua fantasia trasfiguratrice si condensa quella che i tedeschi definiscono come Stimmung: vale a dire una commistione tra livello emozionale, pregno di struggente melanconia e raggelante enigma.
Il processo lessicale e cromatico prende in lei vie onnivoramente oniriche, con l'irruzione nel territorio visivo di simboli ricorrenti, ossessivamente stagliati in una sorta di prisma eidetico, più che altro desunto dagli strati di una memoria geometrizzante. Per la quale le stesse figure umane sono sempre ridimensionate a solidi geometrici dai toni netti e volutamente gelidi, siano essi bande di rosso, di verde, di giallo, di nero, di bleu. Un cloissonisme di campiture à-plat, che quasi mai od impercettibilmente si flette nello sfumato, come per obbedire a quel procedimento ossimorico che ripesca i propri materiali dai caotici fondali del rimosso.
Non a caso, Francesca Magro trae spunto, oltre che dai magici labirinti dechirichiani, anche da alcuni tra gli scrittori più tipici ed emblematici del nostro tempo: Kafka, Joyce e Thomas Mann. Ma si tratta solo di legami analogici, che si rivestono di traslati anellari e disgiungono le trame del motivo-guida in direzione di una rete semantica innervata ai fatti, alle situazioni contingenti: sia personali che collettive. Se dal grande pittore metafisico,la Magro ha preso l'indicibile immobilità dell'enigma (La famiglia; Amanti), da un narratore come Franz Kafka, una dinamica morfologica che si sdoppia e si decompone nelle alterazioni della metamorfosi, dove l'uomo, senza prendere coscienza del suo progressivo mutamento mostrificante, si ritrova ad essere un condannato senza appelli (Calma), oppure un insetto che poi verrà spazzato via dal proprio tessuto sociale, simile ad un disumanizzato rifiuto tra i rifiuti(Sotto il canapè).
È la terribile trasformazione alla quale vanno incontro gli individui-cifra della civiltà industrializzata. Parallelamente, la pittrice ha saputo attingere Dai lividi racconti di Gente di Dublino e dallo stratificato ed inafferrabile Ulisse di Joyce, persino dall'atemporale e limbica Montagna incantata di Mann, derubricando l'aura mitico-leggendaria dell'essere umano, che diviene precaria ed anonima presenza: sulle arcane rive della morte.
E non risuonano più eclatanti gesta; non ci sono più favori divini per espugnare turrite cittadelle e dominare le oscure forze della Natura (Spettacolo; Incontro); ma si estende e coagula un paralizzante fluido di umori malefici e negativi, che fissa la natura umana alla dimensione alienata del malato inguaribile o dello spettro: in attesa della dissoluzione finale.
Eppure anche questa effigie ossificata in una circolarità senza brividi né splendori, assume la connotazione del mito; di quella comica o grottesca dell'odisseo della strada, però, dell'antieroe.

Milano, marzo 1997