Critica

Francesca Magro, "Famiglia", 1990, particolare.

Francesca Magro: un mitico arcobaleno di sentimenti

di Riccardo Barletta

1) II mitico è narrazione, quindi è legato alla parola. L'arcaico è un flash sul “senza tempo”, ed è ovviamente anteriore alla parola.
In questo finire di secolo, tutti e due questi parametri dell'anima umana emergono nella produzione degli artisti, poiché c'è il bisogno di radicare l'uomo contemporaneo in una dimensione più larga e più profonda dei cerchi concentrici, ma di superficie, della storia e della cronaca. Il mitico e l'arcaico attingono a un'area in cui hanno vigore l'inaudito, l'invisibile, l'indicibile, l'impensabile, l'impercepibile: una dimensione questa che va al di là del concetto di realtà comune, fotografica o scientifica. E' la dimensione dell'immaginario, il quale agisce come un genoma psichico. Giustamente, il filosofo francese Alain additò che "i miti sono idee allo stato nascente". E ciò può essere anche ritradotto con l'assioma: l'immaginario è l'infanzia della coscienza.
2) Francesca Magro, giovanissima artista di già ampia produzione, appartiene all'area mitica anzitutto perché il suo mondo è quello dell'Ulisse di Joyce e dell'omerica Odissea. Non descrive, però, né illustra. Per le sue figure sintetiche, così imperative e ricche di colore sempre inventato, la si può definire una “espressionista strutturale”. La sua vocazione è gravida di mistero e di destino. Alcuni mesi fa i suoi personaggi ci apparivano come gomitoli vibranti di turgida vitalità, e la loro figura greve e dura poteva ricordare un certo Sironi. Senza piedi e senza braccia, tali figure erano nello stesso tempo pulsione d'energia e presenze esistenziali. Erano poste in ambienti volutamente indeterminati, in cui agivano stesure timbriche, angolature geometriche, linee-vettrici, scale non partenti da nessuna parte, vani appena accennati. Pur così anomale rispètto a una idea realistica, le sue scene coinvolgono lo spettatore; lo portano in una dimensione sì metafisica, ma nello stesso istante umana, troppo umana. Tutte queste figure sulla linea dell'“antigrazioso” - in cui prevale l'istanza etica sul puro gioco estetico - finiscono allora per rivelare, nel sussurro muto della pittura pura, l'implicita verità della commedia umana. La quale confina con l'enigma.
3) Più recentemente l'iconografia della Magro si è evoluta, rafforzandosi sia nello stile che nell'intensità espressiva. Via via i personaggi si sono presentati come semplici e ieratiche costruzioni, dalle decise angolature geometriche, dalle volumetrie quasi scultoree, rese vive nell'interno da stesure timbriche, accese in sprazzi e bagliori. Un limbo senza storia grava su di loro, mentre la rapidità icastica della visione, ridondante di un pathos cromatico, agisce come coagulo di un canto alto. Lirica ed epica, la Magro confessa il suo rapporto inquieto col colore, volendo scoprire le leggi che regolano le sue radiazioni. "Certe volte mi lascio amare passionalmente dal colore stesso. Mi capita spesso di torturarlo, e nello stesso tempo di amarlo, cercando in esso la forma". L'ansia formativa e figurativa che pervade il lavoro della Magro si articola, linguisticamente, in una alternanza del piatto col volumetrico, dell'acceso col rabbuiato. Alla base c'è il coraggioso piacere degli anacoluti; ma queste irregolarità sintattiche, così articolate in spigolosità, iridescenze, luminescenze, eliminano l'antropomorfismo corrente svicolando in quella concentrata iconicità che è propria delle figure numinose. Siamo insomma al momento festivo, al mitico sorriso degli dèi e alla limpida forza degli eroi.
4) In sostanza, negli ultimi lavori c'è una vibrata tensione al ricupero sia del momento genetico ancestrale, sia dell'elemento ermetico dell'infinito. Tra figurazione e astrazione, in una sintassi complessa e sincopata, Francesca Magro viene accalappiata e accalappia a sua volta lo spettatore nello spazio orientato sugli archetipi parentali, sull'eterno puer, sul criptico androgino. Questa mitopoiesi è attuata sempre con garbata e anche aggressiva fermezza; ma il gioco estetico non sarebbe vertiginosamente convincente senza quel fulgente “arcobaleno dei sentimenti”, individuato e magicamente attuato nel binomio forma-colore. E' lì che eros e dramma trovano il loro campo magnetico, il crogiolo e il coagulo, da cui si sprigiona la luce zenitale del mito.

Milano, 8 ottobre 1989