Critica

Francesca Magro, "Telemaco ai giochi", 1989, particolare.

Francesca Magro

di Riccardo Barletta

Siamo ai prodromi del Duemila e l'immagine più vera dell'uomo di domani ci può essere consegnata da chi, oggi, osserva con occhi partecipati e freschi la vita, senza un bagaglio preformato di sensazioni, di idee, di stereotipi. In questa età di transizione sono i più giovani i predestinati, per così dire, alla “profezia” sul domani. Ecco perché la mostra di una giovanissima artista, Francesca Magro, già alla quarta personale, costituisce un iniziale motivo di interesse. Oltrepassate le solide basi del periodo di studi accademici — in cui appariva molto dotata per il disegno e per una figuralità di tipo sculturale — la Magro sta costituendosi sia una tematica sia uno stile, con forti caratteri personali, al di fuori delle correnti effimere alla moda. Il suo impegno è deciso, pagato al prezzo di studi, prove rifacimenti. Ciò lo si legge negli scelti quadri in mostra, che filtrano questa sua “ansia” formativa e figurativa, in sprazzi e bagliori d'umanità. Francesca non è pittrice di tranquille nature morte, né di paesaggi, ma di figure. Figure non piacevoli o minuziosamente descritte. Figure essenziali, “arcaiche”, specie di gomitoli vibranti di turgida vitalità. Sintetiche sia nel colore sia nella conformazione: statiche fuori e dinamiche dentro. Costituite da una sintassi complessa, sincopata nei piani volumetrici e ridondante di un pathos cromatico. Figure sulla linea dell'“antigrazioso”, in cui prevale l'istanza etica sul puro gioco estetico. Figure sempre centrali, per una commedia umana mai esplicita, perché accennata con la rapidità icastica della “visione”.
Stilisticamente la Magro appartiene a un'area “espressionista”, tuttavia ben piantata sulla solidità di una struttura, di una proporzione, di una tangibilità, che le derivano dai suoi studi sull'arte della tradizione. A latere, c'è in lei la pressante richiesta di una libertà spaziale, di un canto timbrico del colore, che le derivano da una sottile tangenza con l'astrattismo, visto però come luministica espansione dell'arcobaleno dei sentimenti. Antropologicamente, Francesca è di nascita bergamasca; ed è proprio significativa una fusione che si nota, nella sua pittura, tra l'istanza un po' tetragona di realtà di ascendenza lombarda da una parte, e la fuga verso una lirica ed ideale “metafisica” di ascendenza veneta dall'altra.
Non si può non menzionare, a questo punto, il rapporto che la Magro ha con Sironi; la sua figura greve e dura — antimanichino, rispetto a De Chirico! — ritorna, ora senza piedi e senza braccia, come pulsione d'energia e presenza esistenziale, in un ambiente ancora indeterminato, in una specie di limbo senza storia ma gravido di eventi e di destino. Stesure timbriche, angolature geometriche, linee-vettrici, scale e vani appena accennati, sono allora il segnale di una scena “in cerca d'autore”, pirandellianamente ambigua: “così è, se vi pare”. Mai fredda o distaccata, Francesca istintivamente proietta il suo vissuto sulle figure femminili, maschili e infantili, dei suoi dipinti, ma senza appiccicarvi valori aneddotici, cercando invece di trarne un succo e una linfa di passione. Eros e dramma, in uno sfondo idealisticamente lirico o carico di mistero: questa la poetica più intima della pittura della Magro.
I dipinti e i disegni di questa mostra originano, in particolare, da una lettura dell'Ulisse di Jojce e, in parallelo, dell'Odissea di Omero. Ecco allora che il sentimento del viaggio in un mondo sconosciuto prende la nostra artista. La coinvolge in quel vuoto psichico che attornia e fascia i “monumenti umani”, cioè gli uomini come essenza, visti quali antipodi degli uomini come-pura-presenza. Ulisse è con noi nel viaggio verso il Duemila. La violenza e la dolcezza del mito sembra in lui amalgamarsi col sorriso, ambiguo, irreale, pungente, degli dèi. Senza questo transfert mitopoietico, realizzato con aggressiva e garbata fermezza nonché con un trompe-l'oeil vertiginosamente visionario, il mondo di Francesca Magro sarebbe senza senso e senza quella genuinità che è certamente un suo dono, umano e pittorico.
II lavoro fin qui compiuto è, sicuramente, un intenso preannuncio degli sviluppi futuri.

Milano, 13 settembre 1988